Un uomo solo. Sconfitto. Fuori da un gioco che lui stesso ha creato. Gli strani scherzi del destino, la sfrontata concretezza del vile denaro, senza il quale, certi giochi, sarebbe opportuno non intraprendere mai sul serio.
Due anni fa l'ascesa, decisa ma non priva di ballerine chicane. Ambizione, passione, orgoglio ma zero risorse, recuperate solo (e spesso) in extremis. Dopo il trionfo sono arrivati, a getto continuo, i proclami, mai venuti meno nel suo biennio. Un accumulo di sogni e promesse che hanno fatto innamorare subito un'intera tifoseria, rinvigorita (nello spirito e nei numeri) dalle mire trionfalistiche di uno che di mestiere non faceva nemmeno l'imprenditore.
Da allora, sono seguiti due anni mediocri, soprattutto a livello tecnico-sportivo, interrotti proprio sul più bello. Almeno per lui, per Gianluca Paparesta, che in primavera ha accarezzato la possibilità (rimasta tale) di cedere ad un ricco omone dagli occhi quasi a mandorla (il malese). Un'operazione che, viste le perenni difficoltà, avrebbe permesso all'ormai ex presidente biancorosso di ripianare qualche conticino in sospeso e portare a casa un discreto gruzzoletto. La chiusura del cerchio, dunque. Un cerchio che, purtroppo per lui, non si è mai chiuso. Da qui il declino.
C'ha messo voglia e speranza, sbagliando più di una mossa. Soprassedendo sulla pagliacciata Dato' (le responsabilità sono di tutti, in primis le sue), Gianluca Paparesta ha frullato tre allenatori senza portare a casa uno straccio di risultato. Discutibile (e fatale) la presunzione di non volersi, sin da subito ma soprattutto in quest'ultimo anno, circondare di persone competenti e dignitose, abili nelle mansioni in cui lui stesso ha miseramente fallito. Ovvero nella gestione dello spogliatoio, nella costruzione della squadra, nella scelta di quei pochi, pochissimi collaboratori di cui si è fidato. La costante apnea finanziaria, poi, ha fatto tutto il resto, menomando il raggio d'azione di un uomo che, di notte, sognava ben altro.
Un capitolo a parte meriterebbe il rapporto mediatico avuto con tifosi e mezzi di comunicazione. I primi, per interesse e convenienza, sono stati sempre messi sul piedistallo. Almeno a chiacchiere. I secondi, spesso bistrattati e a volte sottovalutati, sono stati strumentalizzati solo quando ha fatto più comodo. Nei momenti più delicati, invece, sono (siamo) stati tenuti all'oscuro di determinate dinamiche e quasi pilotati anche nelle conferenze, in cui Paparesta ha sempre cercato di dettare i tempi per sviare ed evitare, in base all'argomento, le domande più dure e compromettenti. Sui soldi o sulla squadra. Alle curiosità dei cronisti c'è sempre stato un limite che non si poteva superare. Sino ad arrivare al silenzio dei giorni nostri. Un mutismo che ha fatto da cornice all'ultimo, triste, capitolo della storia d'amore più frenetica e autolesionista che a Bari si sia mai vista. Perchè Paparesta ha amato il Bari, da cui voleva comprensibilmente trarre profitto. Ma ha sbagliato troppe mosse, e le ha pagate a caro prezzo.
Uscire di scena perdendo tutto, faccia compresa. Non è quello che si aspettava e ci aspettavamo. Ma a giocar col fuoco a volte ci si scotta. Quello con cui stava giocando Paparesta è stato evidentemente un rogo di grandi dimensioni, tanto grande da rimanerne ustionato. Per sempre.
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