Forza, costernazione, rabbia, rassegnazione, dolore, speranza. La fine si evolve, muta, passando per fasi opposte, sfumature accomunate dal gusto amaro della saliva masticata. Non v’è altra certezza se non  la necessità d’accettarla. Il Bari ha scelto l’eutanasia: al malato terminale venerdì sarà staccata la spina. Non sarà toccata la morale, non si scenderà in piazza sventolando la bandiera della vita o della morte: doveva finire.

Non si racconterà la storia d’un eroe sui libri di storia, saranno semplicemente narrate le gesta dell’AS Bari, una società di calcio che ha galleggiato tra Serie A e Serie B per più di un secolo, riuscendo comunque ad appassionare migliaia di persone. La baresità è dote genuina che si muove dagli odori del lungomare all’amore per San Nicola. Il tifoso del galletto sa slanciarsi per acchiappare un sogno con la stessa capacità con cui riesce a restare attaccato al suolo quando di spazio per ambizioni non ce n’è. Così, in questi 105 anni di storia, i sostenitori hanno scelto di dondolarsi sull’altalena dei loro sentimenti, senza mai scollarsi di dosso il bianco e il rosso. Questa  fine, però, non è degna d’una passione tanto costante, forte, insormontabile. E’ vero, la si attendeva da anni, ma è giunta per scoramento, frustrazione, stanchezza: non era così che doveva andare.

L’AS Bari meritava di poter mantenere intatta la propria dignità, meritava rispetto. Il paradosso sta proprio nella bottiglia di spumante che i tifosi stapperanno venerdì: perché arrivare a tanto? Davvero non si poteva vendere la società la scorsa estate? Davvero c’era bisogno di svuotare lo stadio, allenarsi su manti erbosi distrutti, farsi pignorare anche le mutande, non aver soldi per una trasferta? Era tutto così strettamente necessario? Già. Il punto è che, come cantava Piero Ciampi, “in questa vita, non siamo tutti eroi”. E non v’è fine gloriosa per tutti i combattenti: questa non è Sparta.

Sezione: In Primo Piano / Data: Mer 05 marzo 2014 alle 20:35
Autore: Gianluca Lippolis / Twitter: @GianlucaLippoli
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