Cambiare allenatore è spesso la scorciatoia che nel calcio si imbocca quando non si sa più dove aggrapparsi. È il gesto che ‘dà un segnale’, che sposta il problema da una scrivania a un’altra, che concede ossigeno all’ambiente. Ma a Bari, questa volta, la scossa non ha prodotto né scintille né rumori: ha solo messo in evidenza una verità scomoda. La crisi non è dell’allenatore. La crisi è del Bari, nella sua interezza.
La squadra si trascina da settimane in una terra di mezzo in cui le idee non si vedono, la personalità non si sente e l’identità, quel collante che fa funzionare anche i limiti, semplicemente non c’è. In campo si alternano momenti di totale confusione ad altri di inerzia quasi rassegnata: reparti scollegati, manovra rallentata, un atteggiamento che raramente dà l’impressione di una squadra convinta di ciò che fa. È come se ogni partita raccontasse la stessa storia già vista, solo con dettagli leggermente diversi.
E allora il punto si sposta inevitabilmente più su che giù: non sulla linea laterale, ma sulla dirigenza. Perché la rosa sembra costruita senza una direzione precisa, con innesti che non sempre rispondono a un’idea di gioco coerente, e con una continuità tecnica inesistente negli ultimi anni. Ogni stagione ricomincia da capo, ogni estate si riparte da zero, ogni volta si prova a reinventare una formula che nel frattempo non si è mai consolidata. Così è impossibile crescere, figurarsi competere.
Il risultato è un gruppo che pare smarrito, fragile, incapace di reagire ai momenti difficili. E la cosa più preoccupante è che questa fragilità non nasce da un episodio, da un infortunio, da una partita storta: è strutturale. Si percepisce nello sguardo dei giocatori, nei silenzi dello stadio, nella pazienza che lentamente si consuma fuori dal campo.
Cambiare allenatore, da solo, non basterà. Non adesso. Non in questo contesto. Il Bari ha bisogno di riconoscersi, prima ancora che di vincere. Ha bisogno di una rotta stabile, di coerenza nelle scelte, di una struttura tecnica che sappia cosa vuole essere e dove vuole andare. Finché questo non accadrà, ogni cambio in panchina rischierà di essere solo un cerotto messo su una frattura più profonda.
E allora la domanda non è più "chi sarà il prossimo tecnico?", ma "che Bari vuole essere il Bari?". Perché finché questa risposta non arriverà, la crisi continuerà a essere la stessa: una crisi di identità, la più pericolosa di tutte.
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