Quattro anni a Bari, per complessive 78 presenze in maglia biancorossa, tra campionato e Coppa Italia. Questo il rendimento in riva all’Adriatico di Graziano Battistini. L’ex estremo difensore, oggi quarantanovenne, racconta in esclusiva ai nostri microfoni: “Mi portò a Bari Regalia, una persona squisita, nell’estate 2001. In panchina c’era Sciannimanico, sostituito da Perotti dopo qualche mese. I galletti erano appena retrocessi dalla A e, dopo la squalifica di Gillet per doping, la società cercava un portiere esperto da affiancare al belga. Io ero svincolato, reduce da un’esperienza a Treviso. Giocai 5 gare, in quell’annata. Terminammo al sesto posto, e non centrammo l’obiettivo di risalire subito in massima serie.”
Negli anni seguenti, i risultati sul campo non furono migliori: “Non riuscimmmo ad ingranare e fummo molto altalenanti. Il club cambiò allenatore a metà stagione. Quando arrivò Tardelli puntò su di me e mi promosse titolare. Ci salvammo senza troppa fatica. La stagione successiva, partimmo per far bene e lottare per l’alta classifica. Ci trovammo, però, invischiati nella lotta per non retrocedere, e rammento che continuavamo a pensare che ci saremmo presto rialzati. La situazione ci sfuggì di mano in maniera grottesca. E arrivammo a giocarci i playout contro il Venezia, con mister Pillon. Ricordo che, nella gara d’andata, al S. Nicola, sbagliammo l’impossibile, vincendo solo per 1-0. Nel ritorno, gli avversari passarono in vantaggio nella ripresa, dopo alcune buone occasioni fallite da noi, che avrebbero potuto cambiare il corso della partita. Non avemmo la forza di riprenderci. La retrocessione fu una brutta botta, per la squadra, per la città e per la mia carriera.”
La C venne evitata, grazie al ripescaggio in cadetteria per il fallimento di Ancona e Napoli. Ma Battistini, pur rimanendo sotto contratto, venne messo fuori rosa: “Ho sempre avuto stima del Presidente Matarrese, un uomo eccezionale, d’altri tempi. Ed il rammarico che ho è quello di non essere riuscito a parlare con lui, in quella situazione. Purtroppo, intorno aveva gente inaffidabile. Venni additato come mela marcia, nonostante avessi messo tutto l’impegno possibile per salvare il Bari. Qualcuno mise in giro il sospetto che la mia integrità professionale fosse dubbia. Un’idea assurda. Fu tutto ingiusto. Probabilmente, il mio unico errore è stato non essere riuscito ad aiutare abbastanza a gestire un gruppo alla deriva. L’ambiente non rimase compatto ed integro, nelle difficoltà. C’erano molti grandi professionisti, in quella compagine, come, ad esempio, De Rosa. Ma lo spogliatoio non riuscì a remare tutto dalla stessa parte, nella maniera giusta. Ho sofferto tantissimo, ed ho di fatto smesso di giocare, perché mentalmente mi sono sentito spento. Non trovai un altro ingaggio, anche perché c’erano equilibri strani, a quell’epoca, sul mercato. Erano gli anni della Gea, ed era più facile per alcuni trovare opportunità. Per me fu più complesso, perché non ero nell’orbita Moggi. Bari comunque mi ha regalato persone splendide, specie fuori dal campo, con le quali ancora mi vedo.”
Sull’attualità, l’ex calciatore, che ora svolge la professione di procuratore sportivo, ha le idee chiare: “Il calcio deve pensare a riformarsi. Perché il virus non ci lascerà a breve, potrebbe essere un problema duraturo. La serie C, per via dei costi eccessivi per rispettare il protocollo sanitario, non credo che ripartirà normalmente. L’ipotesi playoff, con le dovute accortezze, dovrebbe essere praticabile. Secondo me, comunque, il pallone nostrano ha un’occasione storica per rivedere il format dei campionati. La Lega Pro, come è strutturata attualmente, non è economicamente sostenibile. Bisogna dare possibilità ai talenti. Ma si deve fare ciò incoraggiando i club a puntare sui propri vivai, più che sui prestiti dalle giovanili delle squadre più blasonate. Il contributo per il minutaggio dei giovani, ad esempio, andrebbe abolito. Un ragazzo deve giocare se è forte, non solo perché il suo impiego foraggia le casse societarie.”
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